La versione di Didone. Una lettura di Ovidio, Heroides 7
La storia di Enea e Didone, introdotta con ogni probabilità da Nevio nel suo Bellum Poenicum e poi consacrata nella forma in cui la conosciamo oggi da Virgilio nell’Eneide, costituisce ancora ai nostri giorni uno degli episodi più noti della poesia epica latina.
Nondimeno, la predilezione per tale vicenda non è appannaggio esclusivo dell’età moderna e contemporanea: già in epoca augustea Ovidio poteva – forse in modo un po’ tendenzioso – ricordare al principe che del poema virgiliano si leggeva soprattutto il libro quarto (et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor / contulit in Tyrios arma virumque toros, / nec legitur pars ulla magis de corpore toto / quam non legitimo foedere iunctus amor, Ov. Trist. 2.533-536; «E persino quel fortunato cantore della tua ‘Eneide’ condusse ‘le armi e l’eroe’ nel talamo di Tiro; nessun’altra parte di tutto il poema è più letta di quella dove l’amore è congiunto da nodi illegittimi», trad. Fasce).
Nell'immagine: Joseph Stallaert - La mort de Didon (foto di Antoine Motte dit Falisse alias M0tty)